Politica estera

Netanyahu mi ricorda Salvini: cavalca il peggio del suo popolo ma ne tradisce l’anima

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Articolo  su Huffington Post –

Tra i tanti pensieri che mi ha fatto venire in mente l’inattesa vittoria di Bibi Netanyahu nelle elezioni israeliane – rabbia, sorpresa, preoccupazione per il futuro di una nazione che amo molto -, uno riguarda l’Italia e ha la forma di un parallelo tra Netanyahu e Matteo Salvini. L’accostamento, lo capisco, è azzardato, soprattutto per le differenze vistosissime tra i due personaggi – Bibi dominatore incontrastato della politica israeliana da un decennio, Matteo che sebbene in ascesa raccoglie per ora un consenso largamente minoritario – e tra i due loro Paesi: Israele si trova immersa in una spirale tragica di guerre e di sangue che dura da mezzo secolo, l’Italia è alle prese con problemi seri e anche dolorosi ma fortunatamente assai meno drammatici.

Dov’è allora secondo me l’analogia tra il premier israeliano e il leader leghista? Entrambi, mi pare, sono bravissimi a cavalcare il peggio dei sentimenti, della mentalità dei loro popoli, ma entrambi, dei loro popoli, tradiscono l’anima.

Netanyahu per esempio si propone come difensore intransigente della tradizione da cui è nato lo Stato di Israele, ma in realtà non ha niente a che spartire con l’idea sionista di Theodor Herzl, di Ben Gurion, di Golda Meir, di Yitzhak Rabin; che era, certo, anche un’idea nazionalista, il sogno poi realizzato di costruire uno Stato sovrano che fosse “patria” per tutti gli ebrei, ma conteneva una profondissima radice solidale, umanistica. I padri sionisti con rare eccezioni (vi è stato anche un sionismo di estrema destra) erano socialisti, e anche nelle fasi di scontro irriducibile con gli arabi hanno sempre tenuta socchiusa una finestra verso la pace; Netanyahu invece, nelle sue politiche economiche e sociali come in politica estera, è la negazione di quella utopia sociale e solidarista. Read More…

Il Pd sullo Stato palestinese ascolti Oz, Grossman e Yehoshua

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Articolo su Huffington Post –

Nel Pd si litiga praticamente su tutto, perciò nessuno scandalo che ci si divida anche su un tema serio e obiettivamente controverso come l’idea – contenuta in diverse mozioni parlamentari – che l’Italia debba riconoscere l’autoproclamato Stato palestinese.

In questo caso, però, non si sta parlando di beghe italiane ma di una grande, decisiva questione globale, dunque sarebbe bene che il Partito democratico la affronti provando a mostrarsi per quello che dovrebbe sentire di essere: il più grande (per consenso) partito della sinistra europea. In Europa la sinistra si batte da anni per il principio dei “due popoli due Stati”, in Europa la sinistra vede nel riconoscimento da parte dei paesi europei dello Stato palestinese non una forzatura improvvida o peggio una provocazione verso Israele, ma un passo utile a sbloccare lo stallo del processo di pace tra israeliani e palestinesi che dura – per responsabilità, è bene sottolinearlo, di Netanyahu ma anche delle leadership palestinesi – da lunghissimo tempo. Un passaggio, va aggiunto, che può favorire l’unica soluzione di questo eterno conflitto capace di dare vera sicurezza ai cittadini israeliani.

Del resto, al Pd basterebbe dare ascolto a quei tre pericolosissimi “nemici di Israele” che si chiamano Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua. Nel dicembre scorso i tre maggiori scrittori israeliani hanno rivolto un appello al Parlamento belga che si accingeva a votare una mozione analoga a queste in discussione oggi da noi:

Per noi è chiaro che la sopravvivenza di Israele e la sua sicurezza dipendono dalla creazione dello Stato di Palestina, sulla base delle frontiere del 1967, così come dal riconoscimento della Palestina da parte di Israele e di Israele da parte della Palestina. La vostra decisione di riconoscere lo Stato di Palestina contribuirà ad aiutare le possibilità di pace e incoraggerà Israeliani e Palestinesi a risolvere il loro conflitto

Un Pd che rinunci ad esprimersi su questo tema, o che peggio se la cavi lasciando ad ognuno “libertà di coscienza”, sarebbe la caricatura di un partito di sinistra. Per questo, detto di qualche penosa scivolata dialettica di chi sostiene le mozioni per il riconoscimento di Israele (su tutti Laura Puppato che in un’intervista a La Repubblica, per dimostrare di non essere anti-israeliana dichiara “ho anche amici ebrei”. Mamma mia!), resta l’auspicio che le mozioni vengano presto messe in votazione e che il nostro Parlamento segua l’esempio di Svezia, Francia, Spagna, Irlanda, Gran Bretagna, Belgio invitando il nostro governo a riconoscere lo Stato di Palestina. Sarà un atto simbolico, certo, ma un atto di responsabilità e di consapevolezza il cui valore va persino al di là del conflitto israelo-palestinese: di fronte alle nuove minacce alla pace e alla dignità umana incarnate dai criminali dell’Isis, la guerra tra Israele e Palestina è un alibi troppo potente nelle mani dell’islamismo radicale. Toglierlo di mezzo dopo quasi mezzo secolo farebbe un gran bene agli israeliani, ai palestinesi ma anche a tutti noi europei.

Cos’è sinistra in Italia oggi: articolo 18 o marcia per il clima?

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Articolo su Huffington Post

Mentre in Italia Matteo Renzi e la minoranza Pd si insultavano sull’articolo 18 con Renzi dipinto come la nuova Thatcher e Fassina, Bersani, Cuperlo liquidati come dinosauri in estinzione, a New York 300 mila persone manifestavano nella “marcia per il clima“, invocando dai governi misure radicali per fermare i cambiamenti climatici passando dall’energia del petrolio a quella del sole e dell’efficienza. Le due vicende sono in apparenza del tutto scollegate, ma in realtà rimandano entrambe a una stessa domanda: cosa significa essere di sinistra nell’Italia del 2014?

Certamente, su questo Renzi ha ragione da vendere, non significa trattare l’articolo 18 come un totem intoccabile. Anche per colpa di un sindacato decisamente strabico, il mondo del lavoro italiano è tra i più iniqui dell’Occidente: milioni di precari e di lavoratori cosiddetti atipici sono esclusi da qualunque tutela, non solo rispetto al licenziamento ma di fronte alla possibilità, che dovrebbe essere un diritto, di progettare il proprio futuro e di non rischiare, se perdono il lavoro, la povertà assoluta. Ciò non vuol dire naturalmente che gli “altri”, i “garantiti” – per esempio qualche milione di operai o di dipendenti pubblici che guadagnano poco più di 1000 euro al mese e godono della “copertura” dell’articolo 18 – siano dei “privilegiati”, come spudoratamente e incredibilmente ha dichiarato la vicesegretaria Pd Serracchiani. Ma certo, nell’Italia di oggi rinnovare alla radice le regole che governano il mercato del lavoro secondo il principio di tutele crescenti e universali è un obiettivo squisitamente di sinistra, e chi lo contrasta merita fino infondo la qualifica di conservatore. Per essere ancora più chiari: se la riforma preannunciata da Renzi sostituisse a strumenti selettivi come la cassa integrazione straordinaria o in deroga l’accesso per tutti i lavoratori nei periodi di non-lavoro a un vero sussidio di disoccupazione (passaggio, va sottolineato, non proprio a costo zero per il bilancio dello Stato…), anche se cancellasse la tutela dell’articolo 18 (tranne che per i licenziamenti discriminatori) essa farebbe dell’Italia un Paese più giusto, più progredito. Read More…

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