AMBIENTE

Ilva e Terra dei fuochi:dov’era la sinistra?

ALTOFORNO

Articolo di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante su Huffington Post

Si dice: vent’anni di berlusconismo hanno affossato l’Italia. Vero, ma con una “avvertenza”: che per buoni sette di questi vent’anni al governo dell’Italia c’è stata la sinistra e che sempre nel “ventennio” la sinistra è stata forza principale di governo in molte regioni e città del Paese.

Che cosa ha fatto la sinistra italiana per contrastare sul campo dell’azione di governo il berlusconismo, per mostrare non a parole ma con i comportamenti e con le decisioni di essere “un’altra cosa”, una “cosa” alternativa sul piano dell’etica pubblica, del senso civico, della sensibilità sociale?

Due vicende diverse tra loro ma entrambe legate alla “questione ambientale” – l’Ilva di Taranto sotto sequestro perché da decenni avvelena un’intera città e la “terra dei fuochi” nel casertano piena zeppa di discariche della camorra – spingono a rispondere: ha fatto poco o niente. Read More…

La politica e l’economia ripartono da “Green Italia”

Articolo su Europa

Un movimento politico green, per offrire una risposta diversa, radicalmente diversa dalle risposte che danno tutte le forze politiche, alla crisi sociale, economica, democratica che assedia l’’Italia. È questa l’’ambizione, per noi un azzardo necessario, di “Green Italia” che nascerà il 28 giugno prossimo, in un incontro pubblico presso l’auditorium del museo Maxxi a Roma.

A promuovere “Green Italia” sono, siamo persone con storie diverse e anche lontane: ecologisti che provengono dal Pd, figure di punta delle principali associazioni ambientaliste, la presidente dei Verdi europei Monica Frassoni; esponenti politici con un ‘“pedigree’ squisitamente di destra come Fabio Granata, imprenditori della green economy.

In Italia l’ecologia, l’’ambiente, l’’economia verde sono trattati da quasi tutta la politica come temi minori. Nessuno ne parla male, ma nel dibattito pubblico recitano la stessa parte dei pianisti nei film western: tra pallottole e cazzotti restavano sempre lì sullo sfondo imperterriti a suonare, mai colpiti e però mai protagonisti della scena. Le ragioni di ciò sono più d’’una, la principale è l’assenza dal nostro paesaggio politico e dal conseguente mercato elettorale di un’offerta credibile e solida – i Verdi italiani non lo sono stati mai – che si proponga di rappresentare i valori, i bisogni, gli interessi legati all’ambiente, e che come in ogni competizione costringa anche tutti gli altri a cimentarsi sul suo terreno.

Per capire che nasce da qui l’analfabetismo ambientale di buona parte delle classi dirigenti italiane e dei nostri politici in particolare, basta dare uno sguardo agli altri grandi paesi europei: è grazie alla forza competitiva dei Grünen (10,7% alle politiche del 2009, il 15% nei sondaggi sul prossimo voto di settembre) se in Germania anche gli altri partiti considerano i temi ambientali come priorità; e in Francia le politiche ambientali hanno cominciato a correre solo da quando destra e sinistra hanno dovuto fare i conti con ““Europe Ecologie”, la federazione ecologista fondata da Daniel Cohn-Bendit che alle elezioni europee del 2009 ottenne oltre il 16% dei voti.

Chi scrive ha pensato che il Pd potesse essere, accanto a molto altro, anche la via italiana alla rappresentanza dei temi ambientali in politica: quella speranza ci sembra finita, sommersa da una deriva che ha progressivamente trasformato il Partito democratico nella somma litigiosissima e poco assortita di vecchie, decisamente datate appartenenze e di piccoli e grandi apparati.

Eppure una domanda di politica green ci sarebbe anche in Italia. Oggi più forte che mai, nutrita com’è non soltanto di valori e modelli di consumo, ma anche di concreti interessi economici. Molti segnali lo confermano: dal successo vistoso dei referendum su acqua pubblica e nucleare di un anno e mezzo fa, al peso non marginale che l’anima ecologica ha giocato nell’ascesa elettorale dei grillini, fino alla crescita formidabile, malgrado la crisi, della green economy, migliaia di imprese (energia, chimica verde, riciclaggio dei rifiuti) ignorate dalla politica (e dalla stessa Confindustria) che hanno fatto dell’innovazione ecologica il loro business principale.

Questa nuova economia già largamente in campo ma priva tutt’ora di rappresentanza politica, nel caso dell’Italia ha un’anima antica. Se è “verde” l’economia che produce benessere e prosperità senza intaccare il capitale naturale, allora noi l’economia verde l’abbiamo inventata prima di tutti gli altri e la pratichiamo con successo da secoli.

Vi è insomma una green economy in salsa italiana che si fonda sulla bellezza, il paesaggio, i beniculturali, la creatività, la convivialità, il legame sociale e culturale tra economia e territorio: tutte materie prime immateriali e dunque ecologiche, tutti talenti dei quali abbondiamo (da cos’altro nasce la fortuna del Made in Italy?) e che oggi sono la nostra arma migliore, forse l’unica vera arma su cui possiamo contare, contro i rischi incombenti di declino.

In Europa, l’Italia è considerata per tanti aspetti un’anomalia: l’assoluta marginalità dell’ambiente nel dibattito pubblico e in particolare nel confronto politico è uno dei nostri gap più evidenti. La scommessa,semplice e temeraria, di “Green Italia” ”è riuscire ad accorciarlo almeno un poco.

Roberto Della Seta
Francesco Ferrante

ILVA, la sinistra che ha rinnegato sè stessa

Articolo su Huffington Post

Per decenni la sinistra a Taranto ha preferito intrattenere rapporti opachi, spesso illegittimi, con i padroni dell’Ilva, lasciando che avvelenassero impunemente la città, piuttosto che difendere la salute dei tarantini: insomma ha rinnegato se stessa.

Questa in due parole è la lezione che si può trarre dall’ultimo episodio giudiziario della “telenovela” Ilva, con l”arresto del presidente della provincia di Taranto Giovanni Florido. Diranno i giudici su eventuali responsabilità personali di Florido, ma alcuni fatti già parlano da soli: quando come a Taranto esponenti politici di ogni parte e colore brigano di nascosto per consentire a imprenditori infedeli come i Riva di infischiarsene delle leggi, quando volutamente e sistematicamente cercano di stendere il silenzio sugli allarmi e le denunce che da oltre un quarto di secolo (i primi dossier di Legambiente sono degli anni Ottanta) dicono la verità su questa vera e propria ‘fabbrica dei veleni’, allora una politica così perde ogni titolo e ogni diritto ad essere creduta e seguita.

Per un tempo lunghissimo, mentre solo gli ambientalisti e qualche gruppo spontaneo di cittadini gridavano le ragioni del “popolo inquinato” di Taranto, diffondevano i dati terribili sull’impatto dell’Ilva, mettevano sotto accusa i Riva che non hanno speso né una lira né un euro per risanare l’impianto, ammonivano che mettere lavoro contro ambiente era una scelta senza senso e senza futuro, gli altri, quasi tutti gli altri, hanno lasciato che il problema marcisse: per prima l’azienda, poi la politica con rare eccezioni e infine lo stesso sindacato, terribilmente lento e pigro nel capire che senza una vera svolta il destino industriale dell’Ilva e quello occupazionale dei suoi lavoratori erano segnati.

Questa lunghissima stagione di irresponsabilità e di reticenza ha trasformato il caso dell’Ilva in un maledetto rompicapo. Chiudere adesso l’Ilva sarebbe una follia. Sarebbe, com’è ovvio, una follia sociale. Ma sarebbe un errore, un errore probabilmente irreparabile, anche sul piano ambientale. Ilva infatti non è solo una fabbrica che per troppo tempo ha avvelenato l’aria, l’acqua, la terra; è anche il cuore di un’immensa area da bonificare dopo decenni di intossicazione industriale, e molti casi analoghi dimostrano che se un territorio così rimane “orfano” di chi così l’ha ridotto, e perciò ha l’obbligo morale e giuridico di risanarlo, insieme al lavoro scompare anche la possibilità di una vera bonifica.

Per ricomporre il puzzle c’è probabilmente un unico modo: togliere ai Riva il controllo e la gestione dello stabilimento e al tempo stesso costringerli con tutti i mezzi legali a disposizione a pagare per il risanamento e la bonifica.

Ma la vicenda dell’Ilva si presta anche a una riflessione più generale. Quando mesi fa i giudici misero i sigilli alla fabbrica, qualche commentatore osservò che in una fase come l’attuale di acuta crisi economica la difesa del lavoro debba avere la meglio su tutto, salute compresa. Bene, questa è una colossale stupidaggine per due buoni motivi.

Il primo è che crisi o non crisi, la maggioranza dei cittadini, a Taranto come in qualunque altra città, non è più disposta ad accettare alcuno scambio tra sviluppo e salute. Il secondo motivo è che questo scambio è del tutto illusorio.

Per l’industria italiana, puntare sull’eccellenza ambientale non è soltanto un obbligo imposto dalle leggi; è l’unico mezzo per difendere le sue ragioni competitive e con esse il lavoro di milioni di persone. Questo vale per la siderurgia come per l’automobile, per la chimica come per tutto il manifatturiero. Finora, bisogna dirlo, né la classe politica né quella industriale né il sindacato l’hanno davvero capito: c’è da sperare che lo choc tarantino glielo insegni.

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